Modalità di raffigurazione della guerra. Atti Giornate di Studio. Parte III. 1a edizione. A cura di Punto di Svista
Pubblichiamo la trascrizione del seminario tenutosi nell’ambito del primo appuntamento della Giornate di Studio sull’Immagine Documentaria di Roma, a cura di Punto di Svista e Officine Fotografiche (18-20 maggio 2011). Si tratta del seminario, tenuto da Maurizio G. De Bonis, sulla autorappresentazione dei fotografi e cineasti israeliani all’interno del conflitto con il mondo arabo-palestinese.
La redazione ha scelto di mantenere nella trascrizione il tono diretto, non accademico e colloquiale utilizzato durante il seminario. Potranno essere riscontrate nel testo ripetizioni di termini e frasi complesse tipiche della lingua parlata. Si è scelto di pubblicare questo tipo di testo per restituire al lettore non solo la sostanza del seminario ma anche, appunto il suo tono originale.
Per esigenze comunicative, la trascrizione del seminario, durata tre ore, è pubblicata in tre parti.
Le immagini di Simcha Shirman, Nir Kafri e Assaf Evron e altre pubblicate nel libro di Ariella Azoulay, prese in esame durante il seminario, non sono reperibili sul web. Dunque è impossibile realizzare dei link.
E’ POSSIBILE RACCONTARE UN CONFLITTO?
MODALITA’ CONTRADDITTORIE DELLA RAFFIGURAZIONE DELLA GUERRA
Seminario tenuto da Maurizio G. De Bonis (critico cinematografico e fotografico, presidente di Punto di Svista)
TERZA PARTE
Direi di andare avanti dal punto di vista dell’analisi delle fotografie che ho qui portato. Da Micha Bar-Am, che è il padre dei fotogiornalisti israeliani, passerei a un altro fotogiornalista: Miki Kratzman. Miki Kratzman è un fotografo che nasce esclusivamente come fotogiornalista; si occupa della raffigurazione dei conflitti, ma sente a un certo punto il bisogno di diversificare la propria azione fotografica per raccontare il conflitto anche nella sua dimensione sociologica, umana e questo fa di Miki Kratzmanun un grande fotografo, ospitato nelle grandi gallerie israeliane. Non c’è una grande differenziazione tra la parte artistica e la parte fotogiornalistica, viene infatti considerato il lavoro di Miki Kratzman nel suo coplesso. Iniziamo dalla prima immagine.
In questa fotografia vediamo due personaggi, due individui, possiamo forse capire dal tipo di arma che usano, chi sono, probabilmente sono dei palestinesi che stanno combattendo all’interno dei territori… Qualcuno prende la mira e spara da una parte, un altro corre non si sa in che direzione, anche in questo caso il linguaggio della fotografia viene utilizzato in maniera intelligente. Ci viene descritto attraverso l’opposizione delle direzioni il delirio del conflitto. L’impossibilità di comprendere dentro il conflitto, e in questo caso il cinema ci ha insegnato molto, cosa si stia facendo, contro chi si stia sparando.
Altra immagine che fatalmente si concentra su questo disegno, un teschio. È un altro segno che il fotografo aggiunge alla questione del conflitto. Coglie questo dettaglio, che è un dettaglio pieno di disperazione, perché il soldato che lo ha indossato sa già quale potrebbe essere la fine che potrebbe fare lui o il nemico che incontra. È come una sorta di marchio che si porta addosso e che non lo abbandonerà mai anche quando questo elmetto verrà tolto. È un segno, è un tatuaggio sulla pelle, è un tatuaggio sulla pelle sua e della sua vittima.
Questa è una fotografia molto forte. Questi soldati hanno catturato forse un terrorista. Ma hanno catturato un essere umano. Lo portano via. E mi ha sempre colpito in questa foto il gesto di stringere i capelli del nemico, che è un gesto violento, di sopraffazione, di applicazione di un potere. Però come ci ha insegnato Pasolini, spesso questi gesti vanno al di là del loro senso superficiale, che pure hanno. E che cosa intendo dire? Perché questo è un gesto anche intimo… qualcuno che ti prende i capelli, ti tocca, ti stringe. Quindi il senso di questa operazione perde quasi di significato all’interno di questo contesto. Mi viene in mente la sequenza finale di Lebanon che vi ho citato prima in cui il soldato israeliano che prende in mano il pene di un prigioniero siriano, lo aiuta a urinare. Dentro queste immagini c’è tutto e il contrario di tutto. C’è la violenza, la sopraffazione, c’è la privazione della libertà, ma c’è anche qualcosa che fisicamente unisce i contendenti, che li mette tragicamente nella stessa tragica condizione.
Un’altra questione. Come si percepisce il delirio e il cortocircuito del conflitto, della guerra all’intero del territorio. Si percepisce attraverso i confini, le separazioni, le barriere. Un continuo posizionare delle barriere, un continuo tentativo di separazione, disperato per altro, perché questi due popoli non potranno mai essere separati. Perché anche la conformazione geografica del posto non lo permette se non operando degli interventi fortissimi che incidono sul territorio. Ecco che Miki Kratzman si sofferma su questi enormi blocchi di cemento che però lasciano una sorta di spazio al proprio centro, una possibilità di comunicazione. Ancora qui nonostante tutto c’è una possibilità di comunicazione. Questa possibilità di comunicazione esiste, e forse non è mai morta nonostante quello che ci viene detto.
Altra immagine. Qui il fotografo ci racconta la situazione che si vive nel conflitto, la devastazione che queste grandi ruspe portano in determinate località del territorio palestinese; questa figura appunto di un arabo si trova in contrapposizione a questa macchina portatrice di distruzione. E’ un dialogo anche in questo caso impossibile.
Questa è un’immagine che mi ha molto fatto riflettere. Il muro che è stato eretto su una linea molto lunga per separare il territorio israeliano dalla Cisgiordania per evitare il passaggio di terroristi che effettuano degli attentati in territorio israeliano. Non è tanto l’immagine in sé a essere importante; c’è una sensazione di oppressione. Un muro e questa figura femminile che lo percorre. Ma è la parola scritta che genera una sorta di cortocircuito del senso. La parola ‘Ghetto’, che è una parola tragica nella storia europea, la parola della morte, della devastazione, dell’uccisione di sei milioni di ebrei, di innumerevoli minoranze e comunità distrutte dalla furia nazista. Questa parola in una sorta di cortocircuito storico/linguistico ricompare in un’area del mondo in cui non avrebbe alcun senso, è una sorta di un virus che si ripresenta, è un segno che viene utilizzato per comunicare qualcosa, ma certamente tutto il meccanismo dei significati di questa fotografia ruota intorno a questo segno linguistico.
Ecco qui, si cambia registro. Kratzman dirige l’obiettivo della propria macchina fotografica all’interno delle famiglie, delle case, dei luoghi dove vivono i palestinesi. E realizza una serie di ritratti ambientati. Si tende a collocare la figura di queste persone, che in genere appunto viene utilizzata solamente in una dimensione fotogiornalistica finalizzata al conflitto, dentro i luoghi in cui vivono. Questa madre con il suo bambino all’interno di questa casa sono ricollocati nella loro dimensione umana, gli viene restituita “un’anima” che il conflitto invece tende a sottrarre.
Stesso tipo di discorso vale per questa inquadratura, che è una delle sue più famose. Una serie di donne palestinesi sedute in una casa, che si coprono il volto, ma che sono ricollocate nel loro ambiente, nella loro dimensione anche intima, privata, in un istante in cui il conflitto sembra lontano, ma è una sorta di ombra che è presente dentro l’immagine e che accompagna questo istante che probabilmente forse è un istante di lutto in cui loro piangono qualcuno che è morto della loro famiglia.
In questa immagine in cui Miki Kratzman ha colto il desiderio di allontanamento del concetto di separazione. In questo caso si ripropone nella dimensione esatta della realtà, la realtà stessa proprio attraverso un disegno sul muro che opera una separazione. È un’immagine che ci comunica molto di più rispetto a quello che è la superficiale rappresentazione di un conflitto nell’atto della sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Qui c’è un desiderio di comunicazione, di libertà, un desiderio collocato all’interno del gesto artistico; è qualcosa quasi di sublime rispetto al dolore che si vive in quel territorio.
Questa è un’altra immagine che mi interessa molto perché fa parte di tutto un altro lavoro in cui la rappresentazione, la gestione dell’immagine all’interno del conflitto ha lasciato spazio a qualcos’altro. A cosa? Alla raccolta minuziosa dei segni di una terra, dei segni di una terra che passa attraverso gli ultimi echi di una distruzione; il ricordo di qualcosa che è rimasto, il segno del passaggio dell’uomo che va idealmente a collocarsi all’interno del territorio di questa zona desertica come qualcosa di tragicamente avvenuto e che lascia comunque un’impronta nella realtà geografica di quel posto. Un cumulo di macerie. Quale immagine più metaforica per raccontare dal proprio punto di vita l’angoscia di un conflitto? Un cumulo di macerie, lì in quella natura in cui l’armonia delle forme e delle linee è interrotta dalla presenza di questa massa assolutamente estranea al concetto dell’armonia della natura e della vegetazione.
Questa è un’altra immagine significativa. Perché entra in gioco un altro elemento che è al centro della poetica di un grande autore israeliano che ha avuto recentemente qui a Roma una personale alla Calcografia a Fontana di Trevi che è Adi Nes. Si tratta del tema del soldato dormiente. Tale tema ha delle implicazioni formali estetiche ma anche contenutistiche molto forti e implica una visione altra della questione del conflitto. E’ una sorta di abbandono, di fuga dalla realtà che il soldato vive attraverso il sonno… è una fuga dall’angoscia del conflitto.
Passerei a farvi vedere una sequenza cinematografica che ci introdurrà ad un altro fotografo estremamente importante. Il film che vediamo adesso è Lebanon, di Samuel Maoz. Ed è un film significativo perché è ambientato quasi integralmente all’interno di un carro armato. Questo carro armato, è collocato all’interno del conflitto del Libano 1982. Una situazione estremamente confusa; in Libano le fazioni palestinesi, le fazioni musulmane, quelle dei cristiani maroniti si scontrano. Israele decide di invadere il Libano e di arrivare fino a Beirut nel tentativo di catturare il direttivo dell’OLP (che li risiede). Ebbene, tutto il film è vissuto attraverso l’occhio, lo sguardo di un soldato israeliano che si trova all’interno di un carro armato e che guarda la realtà attraverso il mirino del proprio strumento ottico che gli serve per capire che cosa succede nella realtà circostante. Quello che succede è che il suo sguardo, apparentemente puntato nei confronti della realtà, spesso non si trova nelle condizioni di comprendere il senso stesso della realtà; ciò che sta vivendo, ciò che sta accadendo al di fuori del proprio universo, apparentemente sicuro e ovattato. Il suo è un universo estremamente fragile, pieno di pericoli, pieno di angoscia. Dentro questo carro armato ci sono ovviamente più soldati e la dinamica psicologica che avviene dentro questo meccanismo sarà il motore di tutta la storia del film.
Su questo dialogo impossibile di sguardi tra il soldato israeliano che vede la realtà da dentro il carro armato, attraverso quel mirino, e questa donna che probabilmente è una cristiano-maronita (e che dunque dovrebbe difendere). Ma tutto questo perde di senso in questa battaglia insensata, in cui non si capisce chi spara a che cosa, in cui gli obiettivi sembrano svanire.
Di nuovo come la sequenza di Salvate il Soldato Ryan, la comunicazione degli sguardi arriva a interrompere il delirio della guerra, il delirio della visione univoca di colui che cerca di vincere sull’altro, che magistralmente metaforizzata da Samuel Maoz attraverso appunto la metafora del soldato che da dentro del carro armato guarda la realtà attraverso un quell’unico canale.
Mi soffermerei ora su Simcha Shirman. Ci interessa particolarmente Simcha Shirman per due motivi fondamentali. Primo perché si tratta di uno dei maggiori artisti israeliani che utilizza la fotografia per esprimere la propria condizione esistenziale e secondo perché è stato esattamente come, Ari Folman e Samuel Maoz, un soldato. Ma nel caso specifico l’azione di Shirman è ancora più significativa perché riguarda la fase esistenziale della “riserva”. Tu che fai l’avvocato, tu che fai il medico, tu che fai il commercialista, tu che apri il tuo negozio la mattina per vendere generi alimentari, devi lasciare tutto, salutare la famiglia e andare lì dove mai vorresti andare. E Shirman ha avuto svariate occasioni per vivere l’insensatezza del conflitto, come un artista che improvvisamente si ritrova all’interno di questa condizione. E decide nel momento in cui entra in una situazione di conflitto di portare con una mano un’arma e con l’altra una macchina fotografica, la sua Leica.
Vediamo alcuni esempi. Vedete qui, di nuovo, la condizione del prigionieri privati della vista. In questo caso Shirman intende sottolineare l’interruzione dell’azione della vista, il prigioniero privato della vista, quindi della capacità di identificare attraverso i segni, la realtà che gli scorre davanti.
Altra tipologia di immagine molto frequente nella fotografia di Shirman è la sua particolare ossessione per questi elementi che nel territorio israeliano sono molto diffusi e che al tempo stesso sembrano degli elementi che fanno parte dell’arredo urbano. Qui ci troviamo su una spiaggia e nulla sembra alludere alla guerra. In realtà per qualsiasi israeliano questo segno è qualcosa di preciso, che rappresenta la paura e il pericolo della guerra. Perché questi sono dei megafoni che vengono azionati in caso di attacco nemico nel momento in cui magari intorno a questa realtà è pieno di gente, bambini che fanno il bagno… e quindi questo è il segno del pericolo imminente e costante che è nello sguardo di ogni cittadino israeliano.
Ecco che ci ritroviamo con Shirman durante uno dei suoi periodi da riservista. L’artista si ritrova improvvisamente in un campo di battaglia con un’arma e non a caso si fa autoritrarre; compie un autoritratto con l’arma che lui usa per esercitare la sua azione di soldato ma c’è qualcosa nell’immagine di straniante, di assurdo.
La questione dell’attesa. In questo caso Shirman inquadra delle persone. Non si tratta di soldati nel pieno della loro vita normale, non sono dei giovani. Si tratta di persone qualunque. Gente presa dalle loro attività e costretta a indossare all’improvviso le tute mimetiche, a essere catapultate in un’azione di guerra. In una condizione in cui la sospensione del senso è chiara… la condizione dell’attesa, un’attesa snervante, lunga, che a volte porta a un’azione bellica ma che a volte porta verso il nulla.
Anche questa è un’altra immagine dell’attesa. Lo sguardo verso un territorio che dovrebbe essere in realtà un territorio assolutamente anonimo, una coltivazione… c’è una casa. Forse c’è il mare in fondo. Ma questo sguardo è pieno della paura di ciò che dovrebbe succedere. La paura è raffigurata da quest’arma puntata verso qualcosa che non si vede, forse verso il cielo.
In questa immagine si vede la condizione assolutamente scissa e delirante del militare che si trova, qui siamo in Libano, in territorio nemico dentro una condizione di pericolo, in un pattugliamento, e si imbatte in un meraviglioso sito archeologico. Shirman realizza un autoritratto nella sua condizione scissa di soldato/uomo. È allo stesso tempo intento in un’attività militare, ma è anche un essere umano attratto da tutte le forme espressive e artistiche, che si fa fotografare come fosse un turista. Straniamento e contraddizione. C’è in questa immagine un lavoro profondo sulla tragedia dell’essere umano costretto a vivere nella dimensione militare lì dove vorrebbe vivere semplicemente nella propria umanità.
Qui probabilmente ci troviamo, sempre al confine tra Israele e Libano, ma potrebbe essere anche le alture del Golan, quindi al confine tra Siria e Israele. Anche in questo caso Shirman si fotografa nella sua dimensione scissa, nella propria consapevolezza di essere umano, catapultato in una realtà della natura in una condizione assolutamente contradditoria, in una dimensione che lo ha estirpato dalla sua attività comune, dal suo principale territorio che è quello della visione e dello sguardo sulla realtà. Ci sono tutta una serie di segni che ritornano nella fotografia di Shirman. Vedete, qui, questo palo, che allude all’allarme e alla sensazione del pericolo, il letto e la rete.
Ulteriore autoritratto. Un albero, un luogo apparentemente inoffensivo, il proprio corpo appeso a testa in giù, in una sorta di autosofferenza, autoinflitta, allo scopo di prendere coscienza della propria condizione… ed è la condizione di tutti i nemici che casualmente o non casualmente si troverà a incontrare durante il suo percorso di essere umano, artista, militare.
Ancora. Si tratta di un’ombra apparentemente innocua, potrebbe essere l’ombra di chiunque di noi che visita questa zona della Galilea, o questa zona del Libano, ma allo stesso tempo è un’ombra fantasmatica; non è il suo corpo che viene proiettato sul territorio, ma la sua essenza di cittadino, di essere umano che si trova in questa parte del mondo in una condizione di scissione e di contraddizione.
Qui il discorso continua, ma in questo caso innalza ancora il senso della propria operazione, facendo vedere non solo la propria ombra ma anche dell’arma che impugna.
Questa è una fotografia che è stata in mostra alla sua personale di qualche anno fa qui a Roma. È un grande autoritratto effettuato nel momento di un’azione bellica. Shirman ha la coscienza e la lucidità di autoritrarsi nel momento dell’azione, nel momento in cui il suo essere soldato prevale sul suo essere artista, essere umano. Ha la forza di autoinquadrarsi e di fotografarsi nell’istante della paura.
Questa è forse una delle più significative. Siamo nel 1982, Mentre Shirman pattuglia una zona del Libano improvvisamente sente un rumore e coglie con lo sguardo questa fragilissima bambina vestita di bianco e scalza che accorgendosi (è una bambina libanese) dell’arrivo dei soldati israeliani, si gira e fugge. Ecco, questa è un’immagine emblematica perché è ancora una volta la spiegazione molto chiara della mancanza di comunicazione nella condizione della guerra. La bambina ha tutte le ragioni di essere spaventata e di scappare, perché si trova nella condizione di essere di fronte a un nemico per di più armato, uomini grandi, che le possono fare del male in quello che è la mentalità che ovviamente le è stata insegnata. Eppure tra questi due esseri umani questo è un cortocircuito di senso perché certamente l’uomo che ha incontrato, Simcha Shirman, pur militare, non potrà/vorrà mai fare del male a questa bambina.
La condizione del conflitto porta al cortocircuito del senso. Un uomo che non farebbe mai del male a questa bambina, genera in questa bambina il terrore. E’ una fuga improvvisa, veloce, tesa alla salvezza. E in questo dialogo impossibile tra lo sguardo di Simcha Shirman S e lo sguardo che non vediamo di questa bambina.
Volevo parlarvi a questo punto di un libro che si chiama Atto di Stato, è un libro di una studiosa israeliana che si chiama Ariella Azoulay. Ariela Azoulay, è docente di filosofia contemporanea dell’Università Bar Ilan ed è direttore del Centro di Arti Visive Camera Obscura di Tel Aviv. E’ una studiosa, una documentarista, che ha realizzato con questo libro il più grande catalogo visivo del conflitto israelo-palestinese attraverso una catalogazione certosina di tutte le immagini che sono emerse all’interno del suo….. Perché vi ho portato questo libro, che poi è stata anche una mostra in Israele? Perché questo è un esempio di uno studio serio, circostanziato, certamente contraddistinto da una visione politica, addirittura da una visione ideologica, ma sotto il profilo scientifico si tratta di un’azione perfettamente corretta. Perché dico questo? Perché Ariella Azoulay ha preso immagini provenienti non solo da un numero impressionante di fotografi ma anche da realtà ufficiali e da ambienti anonimi.
La Azoulay ci insegna che non devono essere usate le foto dei grandi eventi perché sono gli eventi che finiscono per spettacolarizzare il dolore e per comunicare altro rispetto a quello che in realtà vorrebbero comunicare. E ci dice anche che spesso la notizia viene fatta dalle immagini. Questo è un altro meccanismo assolutamente perverso.
Prima di passare alla sequenza cinematografica finale, volevo farvi vedere due immagini. Questa non racconta, non fa vedere nulla di drammatico, non fa vedere soldati, prigionieri, sangue, morti ma ci racconta la situazione di difficoltà di una popolazione, di un paese, di un luogo in cui anche il problema del conflitto bellico genera povertà. Ci troviamo in una situazione in cui questa sedia, e queste casse di pesce posizionate all’interno dell’inquadratura, sono il simbolo di una vita difficoltosa, piena di problemi… vengono raccontate le sofferenze di un popolo molto più che grazie alla raffigurazione di un’azione bellica, molto più che grazie a una spettacolare fotografia di morte come spesso ci viene fatto vedere nel fotogiornalismo internazionale.
Adesso andiamo all’opera di Nir Kafri. A mio avviso significativa. Di nuovo ci troviamo nell’attesa. Fino adesso l’abbiamo vista dal punto di vista dei soldati israeliani, proiettati in questa dimensione delirante del non senso. In questo caso, ci troviamo invece al valico di frontiera tra Israele e Gaza; c’è questa sensazione di desolazione, e queste persone che aspettano, in questo luogo di frontiera, che è appunto il luogo simbolo della separazione, di poter passare magari da una parte o di attendere i propri familiari che tornano. Ci si trovava ancora in una fase, in questa fotografia, in cui la Striscia di Gaza era sotto il controllo totale di Israele e non invece totalmente abbandonata come è adesso. Dunque è un’immagine che trova la sua motivazione anche espressiva in questa separazione di direzione degli sguardi. Queste due persone che sono sedute sullo stesso masso ma che non si guardano… questa persona che ha la testa tirata sulle spalle, questo ragazzo che pensa alla sua vita probabilmente e quello che lo aspetta. La desolazione che c’è intorno è la desolazione di una terra da decenni in conflitto.
Andiamo all’ultima. Assaf Evron. E questa un’altra immagine contenuta nel libro di Ariella Azoulay che in maniera molto precisa, senza derive estetiche ed espressive, senza implicazioni ideologiche e politiche, ci racconta l’essenza di un conflitto. Perché la realtà del conflitto che si vive in quei territori ha certamente delle implicazioni politiche, ma l’altra vera guerra che si combatte, e che nessuno comunica all’interno degli organi di informazione, è sintetizzata in questa immagine: la guerra dell’acqua. E’ quello il vero elemento su cui delle fazioni contrapposte si scambiano violenze da decenni. Basta una sola immagine, basta un solo filo d’acqua fatto vedere senza elementi espressivi e estetizzanti per andare al cuore del problema, alla realtà del conflitto. Ci si batte per la sopravvivenza, e la sopravvivenza è generata dal possesso dell’acqua.
Mi pare necessario concludere con l’ultima sequenza dell’ultimo film che vorrei farvi vedere. E’ tratta da uno dei capolavori del maggior cineasta israeliano attualmente in attività: Amos Gitai, autore che con Kippur ha realizzato una delle sue massime opere… ed è un film basato sulla sua esperienza personale di soldato all’interno della guerra del Kippur.
La guerra del Kippur è stata una tragedia per moltissimi giovani egiziani, siriani e isrealiani. Gitai, già per altro in attività cinematografica all’epoca della guerra, si ritrovò in un’unità militare destinata al soccorso dei soldati feriti sul campo di battaglia. La squadra era composta da sette-otto persone che dovevano entrare su un elicottero e atterrare nel luogo al centro della battaglia, lì dove c’era un ferito da portare via. L’esperienza ha segnato per sempre la vita di Gitai, anche perché proprio durante una di queste azioni il suo elicottero fu colpito da un missile siriano; Gitai fu ferito e passò un lungo periodo in ospedale. Ha rivissuto tutta questa sua tragica esperienza attraverso un’impostazione estremamente complessa anche dal punto di vista figurativo. Gitai è un regista che tiene molto ben presente la parte filosofica dell’immagine ma il suo approccio formale è legato anche alla sua frequentazione dell’architettura… quindi è un artista capace di comunicare indifferentemente attraverso elementi delle immagini e contenuti. Nel caso specifico voglio mostrarvi la sequenza in cui la sua squadra tenta un’operazione di salvataggio di un ferito, ma succede qualcosa, che adesso non voglio descrivervi, che finisce per rappresentare la perfetta metafora della condizione del conflitto.
Abbiamo parlato di mancanza di senso, abbiamo parlato di cortocircuito degli sguardi, abbiamo parlato di insensatezza delle azioni. Gitai riassume tutto questo nella sequenza che stiamo per vedere.
Abbiamo concluso il nostro primo incontro. Vi do appuntamento a domani alle 17.30 con il semiologo Paolo Peverini e il sociologo Giovanni Fiorentino e successivamente con la fotografa Monika Bulaj.
(fine della terza e ultima parte)
© Punto di Svista 07/2011
IMMAGINE
Copertina del volume Atto di Stato di Ariella Azoulay
INFORMAZIONI
Atti delle Giornate di Studio sulla Fotografia Documentaria e il Fotogiornalismo / A cura di Punto di Svista e Officine Fotografiche
Dal 18 al 20 maggio 2011
E’ possibile raccontare un conflitto? Modalità contraddittorie della raffigurazione della guerra / seminario tenuto da Maurizio G. De Bonis (Punto di Svista) mercoledì 18 maggio, dalle 18.00 alle 21.00
LINK
Atti delle Giornate di Studio sulla Fotografia Documentaria e il Fotogiornalismo.
E’ possibile raccontare un conflitto? Modalità contraddittorie della raffigurazione della guerra – PRIMA PARTE
Atti delle Giornate di Studio sulla Fotografia Documentaria e il Fotogiornalismo.
E’ possibile raccontare un conflitto? Modalità contraddittorie della raffigurazione della guerra – SECONDA PARTE
Atti delle Giornate di Studio sulla Fotografia Documentaria e il Fotogiornalismo.
Cercare, scoprire, vedere, raccontare. La fotografia come strumento di conoscenza
Immagini di Miki Kratzman
Il sito di Assaf EvronLe Giornate di Studio sulla Fotografia Documentaria e il Fotogiornalismo per approfondire e riflettere
Maurizio G. De Bonis
Salve Smargiassi, con il mio seminario non intendevo fornire risposte precise (semmai alcune risposte con qualche dubbio) ma piuttosto fare sempre nuove domande. Come lei giustamente ha sottolineato non è questa la sede per un’analisi geopolitica, e non doveva essere “luogo? di analisi geopolitica neanche il mio seminario (e spero che non lo siano gli eventuali commenti). Io ho voluto parlare solo di un caso unico al mondo che riguarda un Paese che da decenni riflette con lucidità e determinazione (e sofferenza) sulla propria condizione di “elemento di un conflitto?. Il tutto attraverso la fotografia e il cinema. Ciò che lei ha letto è ovviamente la parziale (e sottolineo parziale) trascrizione di un incontro durato tre ore che ha visto la partecipazione di un foltissimo pubblico che ha colto al volo il mio invito a evitare interpretazioni politiche e/o ideologiche del mio lavoro. Io ho riflettuto su questioni artistiche, espressive, psicologiche, umane e sociali legate alla tragica condizione di un popolo di un Paese in guerra. E in (sole) tre ore, come lei comprenderà, non ho potuto comunicare ai presenti i risultati completi di uno studio che porto avanti da molti anni. Inoltre il mio non era un seminario su Micha Bar-Am e neanche su Ariella Azoulay. Infatti, ho analizzato anche altri autori come Simcha Shirman, Miki Kratsman, Assaf Evron (artefici di istanze creative diverse e sconosciute in Europa) e cineasti come Amos Gitai, Ari Folman e Samuel Maoz, la cui poetica visuale è stata al centro del dibattito critico negli ultimi anni. Il tutto per fare un discorso ampio, basato su diversi linguaggi e punti di vista. Altro punto: la parte finale del suo commento mi sembra una deviazione evidente dal discorso principale. Io ho parlato di altro e il tutto va contestualizzato in un evento durato tre giorni, con molti contributi. Nonostante ciò, sono d’accordo con la frase con cui lei chiude: “il rischio di una nuova estetizzazione della guerra è dietro l’angolo?. Su tale questione mi sono espresso pubblicamente negli anni molte volte (e ciò non è stato sempre accettato dai miei interlocutori). Ma questo è un altro argomento, appunto, che merita molta attenzione e che magari potrà rappresentare un ulteriore terreno di dibattito democratico in altre occasioni.
Michele Smargiassi
Caro De Bonis, se lei non se la prende troppo devo confessarle di essere rimasto un po’ a bocca asciutta al termine della lettura della sua relazione sul fotogiornalismo di guerra. Il cui titolo in forma di domanda resta senza una risposta, almeno esplicita, anche se l’approfondita e partecipata interpretazione che lei dà delle singole immagini fa pensare che sia implicita e affermativa: sì, è dunque ancora possibile raccontare un conflitto, se si scelgono linguaggi adeguati. Lo penso anch’io. Ma c’è qualcosa che mi spinge a fare alcuni passi in più. Ed è proprio la sua scelta di restringere l’ambito al conflitto arabo-israeliano. Che non è una guerra nel senso novecentesco, anche se a volte ne ha assunto l’aspetto; non è un conflitto a “bassa intensità? come in America Latina; non è la dissoluzione della società in scorribande da signori della guerra come nell’Africa subsahariana; non è neppure un “conflitto asimmetrico? del terzo millennio, come in Afghanistan o in Iraq. Non è questa la sede per un’analisi geopolitica, ma è un fatto ammesso anche dai migliori intellettuali israeliani che il vero conflitto dentro e attorno a Israele è quello che ha radici in una radicale diseguaglianza di diritti, nell’esclusione sociale e politica di una intera categoria di persone. Ora, si può chiamare con piena ragione “guerra? anche questo conflitto che non sempre usa carri armati e cacciabombardieri e che ad esempio va in scena, anche in giorni “normali?, ai varchi di controllo. Ma di sicuro non lo si può affrontare, dal punto di vista del fotogiornalista, come si affrontano gli altri conflitti contemporanei che ho detto prima. Come sottolinea Ariella Azoulay nei suoi libri, di uno dei quali lei ha fatto una citazione doverosa ma troppo sintetico. Il cuore dell’analisi della Azoulay è proprio la possibilità, non garantita, che la fotografia riesca a dare conto di quel diritto negato alla cittadinanza, facendolo emergere “visivamente? come radice profonda del conflitto, di cui l’affrontamento armato è solo la superficie più clamorosamente visibile. Per questo nei suoi libri utilizza più fonti, anche quelle meno “autoriali? (verso quelle autoriali anzi mostra una certa prudenza, per non dire diffidenza), e anche fotografie non prodotte con attenzioni formali. L’ipotesi della Azoulay è che quella possibilità sia legata all’esistenza di un “contratto civile della fotografia? che abbia più “contraenti?: non solo il fotografo quanto i destinatari delle sue immagini e soprattutto i soggetti fotografati, intesi come consapevoli del fatto che la fotografia è comunque presente sul campo del conflitto, che a volte è uno strumento di semplificazione e quindi di conferma dell’oppressione, ma che può diventare in certe condizioni uno strumento di rivelazione. Ora, non tutte le immagini che lei ha commentato stanno in questo solco che Azoulay ritiene l’unico adeguato oggi. E non per mancata sensibilità socio-politica dell’autore. Le foto di Micha Bar-Am, ad esempio, non lo sono se non altro perché appartengono a un’altra epoca, all’era pre-Intifada in cui il conflitto era ancora prevalentemente fra eserciti; e rispondono di fatto, con il loro particolare, forte e razionale “stile Magnum?, a una interpretazione ancorata ai conflitti militari del Novecento: guerre in divisa con alto impatto sulle popolazioni civili. Ma anche le fotografie dei reporter più vicini a noi nel tempo sembrano oscillare fra quel polo narrativo tradizionale e lo spaesamento quasi afasico dei “fotografi della complessità? cresciuti con le new wars (un’era inaugurata da “Telex, Iran? di Gilles Peress), con la loro “testimonianza debole? che si ritrae dal compito dell’interpretazione e la lascia all’osservatore finale, se sarà in grado. Quel che voglio dire, per non farla troppo lunga, è che la risposta alla sua domanda non è così scontata come sembra. Il lavoro di testimoni professionali come i fotogiornalisti è quanto mai indispensabile, soprattutto in un’epoca in cui il cosiddetto “citizen journalism? (definizione ingannevole, che copre troppo spesso un prelievo di immagini del tutto casuale) sembra esaudire l’esigenza falsamente primaria del “vedere tutto e subito?. Ma l’autorialità da sola non basta. Serve la disponibilità, vorrei dire l’umiltà di calare le proprie capacità e la propria esperienza (rinunciando, nel caso, anche a qualche virtuosismo) dentro un processo di comunicazione, cioè un processo politico, che sfugga alla dittatura dell’“agenda dei media?, alla seduzione della foto da premio, e nel quale invece la collaborazione più o meno esplicitamente “pattuita? fra il fotografo e i suoi soggetti diventi requisito indispensabile. Altrimenti, il rischio di una nuova estetizzazione della guerra è dietro l’angolo.