2° Ritiro di Studio sulla Fotografia di Prato. Una riflessione
Siamo fotografi che pensano. Questa è la prima considerazione che mi viene da fare dopo il secondo Ritiro di Studio sulla Fotografia di Prato organizzato dall’Associazione Punto di Svista. Forse sarebbe più corretto dire: siamo “artisti” che pensano, dal momento che la fotografia è un’arte e questa dovrebbe essere la prima importante rivendicazione nei confronti di chi ne abusa per fini principalmente commerciali. Infatti l’artista fotografo dovrebbe potersi esprimere liberamente, con la propria idea e la propria personalità, senza dover ricorrere a operazioni di maquillage più o meno richieste/imposte dal cosiddetto mercato.
Che significato ha avuto dunque questo evento? Non ho partecipato al primo incontro svoltosi lo scorso anno, pertanto non posso parlare di un’eventuale evoluzione dell’esperienza, su questo punto forse potrà illuminarci qualche altro esponente del gruppo, ma posso senz’altro affermare che si tratta di una dimensione decisamente “nuova” rispetto al solito cliché di iniziative sulla fotografia proposte dal normale mondo culturale che la circonda. E in cosa consiste questa novità? Si tratta finalmente della possibilità di esprimersi liberamente, da pari a pari in un contesto di immersione completa, sul tema: “cosa è la fotografia del nostro tempo e quale la posizione del corpo del fotografo nel mondo?”, innescando quindi una vera e propria discussione. E già perché della fotografia non si discute bensì si prende per oro colato tutto ciò che il “sistema fotografia” afferma.
Dunque non un workshop, non una scuola, non una lettura di portfolio. Questi sono i “metodi tradizionali” attraverso i quali si continua a perpetrare la solita modalità che vede contrapporsi gli esperti appunto, leggi coloro che hanno in mano il mercato, e i fotografi i quali possono solo vedersi imporre stilemi e modi di imparare/accettare linguaggi che, dettati dalle mode, diventano necessariamente omologati. L’esperienza di Prato non è stato niente di tutto ciò. In effetti, i timori sulla capacità di autogestirsi senza dover ricorrere ad una guida, già espressi in un articolo di Maurizio G. De Bonis al termine del precedente ritiro (Storia di un esperimento. Tre giorni sulle colline di Prato per riflettere sul senso del fare/studiare fotografia) non si sono del tutto dissipati anche se credo che quest’anno la discussione sia stata più allargata pur essendo rimasta, a volte, una tensione convenzionale a cercare la figura del tutor, riconosciuta come inevitabile e a cui fare riferimento.
Personalmente mi ci sono voluti alcuni giorni per digerire ed elaborare quanto vissuto durante questo incontro. Alla fine il pensiero che vorrei cercare di esporre racconta di un senso della fotografia che va oltre il normale modo di intenderla, per capirci, e qui rimarco il concetto espresso in apertura: prima di tutto stiamo parlando di un’arte e non di un mestiere – questo è spesso, a mio parere, oggetto di confusione – e come tale la fotografia appartiene inevitabilmente alla sfera dei sentimenti e nulla ha a che vedere con la narrazione di fatti. In questo senso trovo che il reportage, tema dibattuto tra i partecipanti, abbia ucciso la fotografia. Non penso però che un fotografo possa dirsi artista se attraverso le sue immagini non emerge la propria poetica e se non riesce a svincolarsi da quelli che ormai sono divenuti i nuovi stereotipi dell’immaginario collettivo. Purtroppo sempre di più il reportage è visto come arte quando molto spesso si tratta solo di mestiere e alcuni autori hanno imposto il proprio modo di vedere il mondo rendendolo esteticamente univoco.
Se la fotografia deve essere un’arte essa dovrà, a mio parere, necessariamente partire da presupposti sentimentali e poetici ben definiti e tornare ad accostarsi a concetti ormai del tutto dissipati come per esempio il “bello” e “l’armonia”, perché no! E non stiamo parlando di estetica intesa come espressione di una forma gradevole, bensì come senso di “esperienza della conoscenza”, e qui cito l’amico e partecipante Pietro D’Agostino. Nemmeno possiamo pensare che tale estetica possa inquadrarsi in un ambito di astrazione particolarmente soggettiva proprio in virtù del fatto che dovrebbe cercare di uscire da quegli schemi precostituiti che vogliono classificare la pratica fotografica: per me ciò che è bello e armonioso equivale ad uno status vivendi, ha a che fare con le relazioni tra le persone, con lo stare bene in certi luoghi, magari solo perché ti ricordano qualcosa, in una parola ha a che fare con la memoria. La memoria è l’elemento che ti permette di continuare a vivere e l’arte, anche quella fotografica, non può prescinderne. Su questo punto si è proficuamente dibattuto ragionando anche con l’ausilio di film e documentari, attraverso i quali è stato possibile approfondire il concetto di percezione rapportato, anche scientificamente, alla capacità del cervello di vedere e ricordare.
Certo non è mancata l’analisi delle immagini dei partecipanti ma, anche qui, la novità è stata la modalità: tutti hanno potuto parlare di tutto. Apparentemente può sembrare un metodo che crea confusione; in realtà in questo modo, chiaramente disciplinato dal buon senso di ciascuno nell’intervenire, è stato possibile condividere e scambiarsi opinioni che hanno indubbiamente accresciuto la capacità critica di ognuno sia nei confronti del proprio lavoro che verso quello di altri. Il carattere assolutamente paritetico e non competitivo della discussione ha fatto si che venissero fuori le “viscere” e i “mal di pancia” di tutti nei confronti di uno stato delle cose apparentemente intoccabile.
Un’altra considerazione emersa e dibattuta, a volte con contraddittori significativi, è stata la leziosità dell’immagine nel senso di “pulizia dell’inquadratura”. Ecco: non è di questa bellezza che si vuole parlare! Spesso ci viene contestata la presenza di elementi fastidiosi in campo, ma in base a quali canoni espressivi? L’armonia e il bello sono dentro la fotografia nel senso interiore del termine. Non c’è alcun bisogno di produrre “belle” immagini, sarebbe come dire che un dipinto Pollock è brutto perché a prima vista non si capisce nulla. Su questo tema, nello specifico e personalmente, ho condiviso interessanti argomenti di discussione ai quali non avrei probabilmente avuto accesso senza il confronto con gli altri partecipanti.
E in effetti questo incontro ha cercato di dare voce al “non detto? che alberga in ciascuno di noi e che spesso non riusciamo a esprimere.
Per concludere, mi piace pensare all’esperienza di Prato come a un laboratorio, un’officina in cui si lavora tenendo presente antichi valori indispensabili a forgiare una nuova concezione dell’ immagine. Mi auguro che tutto questo abbia un seguito e possa crescere producendo iniziative ancora più coinvolgenti.
© Punto di Svista 06/2009
Articolo pubblicato anche su © CultFrame 06/2009
I PARTECIPANTI al ritiro di studio sulla fotografia di Prato (maggio 2009)
Francesco Basili / Emiliano Cavicchi / Maurizio Chelucci / Alfredo Covino / Pietro D’Agostino / Maurizio G. De Bonis / Giovanna Gammarota / Susan Kammerer / Orith Youdovich
LE FOTOGRAFE di cui si è discusso durante il ritiro
Elina Brotherus
Beatrix von Conta
Lisa Kereszi
Jessica Todd Harper
I FILM visionati e analizzati
La Vie de Bohème di Aki Kaurismäki
A bout de soufflé di Jean-Luc Godard
Leningrad Cowboys Go America di Aki Kaurismäki