Acqua, tra rispetto del territorio ed esigenze della città. Appunti per un un’indagine visuale
Effettuare un’indagine fotografica sul territorio presuppone la conoscenza delle differenze che esistono a livello linguistico-semantico fra tre parole spesso utilizzate erroneamente, anche in ambito artistico, come sinonimi: natura, luogo e paesaggio.
La prima è il cosiddetto insieme di elementi animali, vegetali e minerali che apparentemente sembra svilupparsi secondo un ordine indiscutibile ma che si manifesta come un caos informe e indifferente (alle questioni umane), in sostanza come un imperscrutabile enigma di tipo hegeliano.
Il luogo è, invece, un’entità di carattere geografico-topografico, misurabile, quantificabile secondo le convenzioni sociali, spesso caratterizzate dalla ricerca di presunti confini che il dis(ordine) naturale certamente non riconosce, né comprende.
Il paesaggio è, infine, un’elaborazione culturale e filosofica, tutto sommato molto recente nella storia dell’umanità, che si manifesta principalmente nel campo artistico (inizialmente pittorico) come risultato di un punto di vista (fisico) sulla realtà nonché della posizione del corpo dell’artista nel mondo.
A partire dalla conoscenza di questi tre concetti, molto precisi, è possibile poi sviluppare un discorso creativo che possa avere una sua logica evoluzione per quel che riguarda l’idea di paesaggio. Quest’ultimo fattore, partendo dalla questione del punto di vista (fisico) sulla realtà, può progredire intellettualmente divenendo proiezione dell’interiorità del soggetto guardante, oppure pura metafora visiva significante in grado di produrre autonomamente evocazioni semantiche. E tali evocazioni sono spesso determinate da segni della presenza umana, del lavoro individuale e collettivo e dello sfruttamento della natura e del luogo da parte della società organizzata.
È proprio in relazione a questa consapevolezza che Punto di Svista, grazie al lavoro sul campo svolto dal fotografo Pietro D’Agostino, ha cercato di analizzare visivamente la questione dell’approvvigionamento dell’acqua per scopi civili e industriali e ciò che tale attività comporta nel territorio, con particolare riferimento alla zona della Città Metropolitana di Roma Capitale.
Pietro D’Agostino si è così concentrato in modo certosino sull’esplorazione di spazi naturalistici situati nei pressi di centri abitati, spazi che portano come incisioni indelebili (ma tutto verrà prima o poi cancellato dal [dis]ordine della natura), segni che marchiano il territorio e hanno determinato nel corso degli anni delle evidenti mutazioni del paesaggio.
Tubature che si intrecciano mostruosamente una nell’altra, profondissimi solchi che feriscono il terreno, manufatti ora semi nascosti dalla vegetazione, ora manifesti in maniera macroscopica e che si ergono come inquietanti sentinelle della civiltà. E ancora: grossolane tracce tecnologiche in luoghi scoscesi, pali che riportano indicazioni, costruzioni che hanno alterato gli equilibri naturalistici e prodotto un nuovo sguardo.
Un sistema di strutture si distende in tutta l’area di Roma Capitale e nelle zone limitrofe e, di fatto, inquina visivamente il territorio mostrando alla vista individuale paesaggi che in modo palese sono rielaborati in funzione dell’organizzazione sociale. La città ha bisogno di acqua, ma l’acqua (questa è la storia dell’umanità) non può che essere ingabbiata e deviata per il suo uso pubblico. Si tratta di un intervento allo stesso tempo discreto e violento, ben collocato nello spazio e impiantato in modo brutale. Una presenza “intelligente” e razionale, dunque, attraversa una natura silente, complessa e follemente anarchica.
Le immagini di Pietro D’Agostino testimoniano con estrema accuratezza queste feroci contraddizioni, il conflitto tra rispetto del territorio ed esigenza della società, tra armonia disorganizzata e criterio tecnologico. Ma ciò che emerge in particolar modo da questa osservazione fotografica è una sensazione di triste abbandono, di deformazione dell’esistente, di cui quasi sempre il cittadino, che apre comodamente i rubinetti della propria abitazione, non si rende conto.
Nel vedere taluni acquedotti di oggi si rimane (nonostante i tentativi di nascondere gli esiti dello sfruttamento delle risorse) basiti di fronte alle brutture ingegneristiche che imbrattano volgarmente il territorio, in special modo se si ripensa a come queste strutture erano concepite dal genere umano già alcuni millenni indietro.
Così, le immagini del Lago di Bracciano che mostrano un bacino d’acqua fondamentale a tratti arido e morente si manifestano più che come le prove di un’utilizzazione scriteriata sociale dell’acqua, come la gigantesca metafora della frustrante e crudele, forse patetica, ossessione che caratterizza il genere umano praticamente da sempre: ovvero l’idea angosciosa e morbosa secondo la quale gli elementi della realtà (anche quelli della natura) debbano essere sempre, costantemente, controllati e utilizzati dall’umanità, come se il mondo intero si possa misurare esclusivamente con il concetto di proprietà e di uso delle risorse. A qualunque costo.
© Maurizio G. De Bonis / © Punto di Svista – 2018
Testo e immagini in:
Politiche urbane per Roma – Le sfide di una Capitale debole (pp. 247-255)
A cura di Ernesto d’Albergo e Daniela De Leo
Sapienza Università Editrice / Collana Materiali e documenti (2018)
ISBN: 978-88-9377-050-7