Immagini contemporanee. La libertà di guardare. Conversazione sulla fotografia tra Francesca Loprieno e Giovanna Gammarota. 3a parte
Tu paragoni l’immaginazione ad una stanza tutta per te. Potrei dire la stessa cosa per ciò che riguarda il significato della memoria nel mio lavoro senonché la memoria, come del resto anche l’immaginazione, non possiede una valenza unicamente personale, essa è molto spesso un elemento che accomuna svariate persone in relazione a un vissuto storico il quale, di riflesso, incide con precisione chirurgica ogni singolo individuo in maniera differente. Dunque per me la memoria è equiparabile a un cammino, non è statica ma si modella attraverso l’esperienza, assume fattezze e significati diversi con il progredire di essa. Come ho spesso avuto modo di raccontare, il significato di memoria e esperienza si è palesato in me con chiarezza illuminante a partire dalla scomparsa di mio padre avvenuta nel 2002. In precedenza questi due elementi formavano un groviglio di sensazioni indescrivibile che cercava una propria strada per potersi esprimere al di fuori di me. Per lungo tempo ho pensato che la scrittura potesse essere una di queste strade, e lo penso tutt’ora, tuttavia è stato nel momento “casuale” in cui ho avuto per la prima volta tra le mani un dispositivo fotografico che mi sono resa conto di avere un’altra possibilità. Ho quindi cominciato a riprendere lo spazio attorno a me con la precisa sensazione di cercare qualcosa che non c’era – il paese in cui mio padre era nato non poteva più essere attraversato da lui, è da lì che ho iniziato – al contempo però mi rendevo conto che anche le immagini scattate prima di questo evento erano un po’ come alla ricerca di una collocazione: mancava qualcosa che desse loro il senso della direzione in cui andare.
È per questo che il tuo lavoro sul paesaggio mi ha attratta particolarmente, per reazione all’assenza di memoria di cui viceversa il mio è pregno. I luoghi da te ritratti appartengono al tuo tempo, sono testimoni del presente prima ancora di rappresentare un “esistito”. Si sono come adeguati all’indifferenza umana che li attraversa configurandosi in una modalità di anonimato tale quale quella che l’essere umano è chiamato a vivere oggi. I territori si mostrano completamente privi di storia e al contempo sembrano volersi adattare alla storia personale di chi li attraversa. La presenza umana sembra voler ridare loro una connotazione più precisa ma ciò non avviene: l’umano è come inglobato nel luogo divenendo uno degli elementi del paesaggio. Questo è particolarmente evidenziato in “Passaggi nel nulla” dove il territorio non è più un luogo ma diviene una sorta di contenitore del niente che non rappresenta solo il nulla fisico: quel nulla è l’invasione del non essere.
Appare molto difficile recuperare un’identità nelle tue immagini. Essa è automaticamente negata sia alle presenze umane sia ai luoghi che attraversi. È il mal di vivere del contemporaneo che non attribuisce alcun senso, che appiattisce ogni cosa annullando quello spessore che la Storia ci ha consegnato. Viceversa io lavoro con la Storia, con quella memoria che cerca di assistermi nel mio girovagare per i luoghi laddove questi subiscono il quotidiano martirio che li immola alla realtà che vuole ogni cosa omologata. Cerco le tracce che non trovo più, e dunque immagino – ancora questa parola. Mi chiedo cosa resterà della tua Storia, così inespressiva, se già di quella che ritraggo io non rimane molto. Cerco un motivo per capire se questi tuoi luoghi continueranno la loro esistenza, fino a quando, e cosa saranno quando verranno ricordati.
Nonostante ciò non tutto è così privo di senso: se si osservano il cielo e il mare rappresentati nelle tue immagini della serie Stati migranti si scopre invece che una percezione è ancora possibile. Alzare lo sguardo verso il cielo appare come una sorta di “salvezza” del guardare, le contaminazioni qui sono più piccole e discrete, tutto è più libero. E’ questa libertà che cerchiamo? La libertà di guardare? Cosa occorre per “liberare” lo sguardo? E’ emblematico che ciò avvenga in quello che definisci stato “migrante”. Per ristabilire quell’equilibrio naturale e personale completamente perduto occorre “far migrare” lo sguardo, imprimere ad esso una sorta di pulizia che lo ricondurrà a provare nuovamente la capacità di relazionarsi con il mondo che ci circonda. I nostri saranno occhi nuovi.
Dunque la domanda che mi sono posta e che ti pongo è: ora che hai fotografato il cielo come farai a fotografare altro?
© Punto di Svista 04/2014